Il lavoro di domani è GREEN!
- by Greenthesis Group
- 11 set 2020
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Il progresso tecnologico è stato, nel ventesimo secolo, propulsore di benessere economico diffuso e di un forte incremento occupazionale che hanno, a loro volta, generato abbondanza e crescita. Come mai negli ultimi anni, allora, la tecnologia sempre più spesso viene vista come una minaccia? Innanzitutto, quello che preoccupa (e preoccupava, a dirla tutta, già nel 1933 il grande economista John Maynard Keynes) è la così detta “disoccupazione tecnologica”. Con questa espressione si fa riferimento a quel processo secondo cui il ritmo della crescita tecnologica è più veloce di quello umano di riuscire ad adattarsi all’innovazione, lasciando così porzioni di lavoratori senza più occupazione perché non si è in grado di capire simultaneamente al progresso come impiegare la forza lavoro che non serve più nella sua “vecchia” posizione lavorativa. Queste le parole di Keynes: «Soffriamo per un attacco di pessimismo economico. […] Abbiamo conosciuto un progresso tecnologico più rapido negli ultimi dieci anni che in tutta la storia precedente […]. La rapidità del cambiamento tecnico produce problemi difficili da risolvere. I Paesi che soffrono di più sono quelli che non sono all’avanguardia del progresso tecnico. Siamo colpiti da un nuovo malessere […]: la disoccupazione tecnologica. Una forma di disoccupazione causata dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore di quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro. Ma è soltanto un disallineamento temporaneo»[1].
Con ciò non bisogna, però, pensare che sia il progresso tecnologico il “problema”, al contrario esso continua a essere un aspetto necessario e positivo: quello che può costituire un problema è il mancato adattamento, tramite la continua innovazione, alle nuove esigenze del mercato del lavoro. Se all’avanzamento tecnologico, infatti, non corrisponde un’innovazione del mercato occupazionale avviene proprio quel disallineamento temporaneo di cui parla Keynes.
Ma allora, quali sono, ad oggi, i lavori del futuro? Su cosa si deve puntare per generare occupazione?
Se pensiamo alla società contemporanea, vediamo come tutto ciò che implica la ripetitività, la meccanicità e la segmentazione di un processo o di una operazione, può essere facilmente portato a termine da una macchina che sarà in grado di operare molto più velocemente, efficientemente e con mino margine di errore di un uomo. Bisogna perciò guardare a tutto ciò che la macchina non può fare. Nell’interessante saggio di Luciano Canova, intitolato Pop Economy, viene preso in esame uno studio americano condotto da Carl B. Frey e Michael A. Osborne[2] sul futuro dell’occupazione e si evince che: «Prendendo dati relativi al mercato americano e tratti da O*NET[3], un servizio web sviluppato per il Dipartimento del Lavoro del governo americano, e incrociandoli con quelli su reddito e occupazione raccolti nel 2010 dal Bureau of Labour Statistics (BLS), Frey e Osborne sono arrivati a classificare più di 700 lavori in base alle loro caratteristiche specifiche, in termini di manualità e altre attività richieste. Per 70 di questi lavori, riconosciuti da un gruppo di informatici esperti come soggetti, probabilmente, ad una rapida automazione negli anni a venire, vengono stimate le determinanti principali che favoriscono la meccanizzazione e i pesi, così ottenuti, sono poi applicati alle altre 600 occupazioni per predire quelle a basso rischio di automazione, medio rischio ed alto rischio. […] Quasi un lavoro su due, infatti, è classificato come ad alto rischio di automazione in un periodo di tempo non superiore ai 20 anni e, tra questi lavori, molti sono di natura impiegatizia e si tratta, dunque, di attività fino a poco tempo fa ritenute al riparo dall’innovazione tecnologica»[4].
Nonostante la metodologia dello studio presenti dei limiti, ciò che importa trarre da esso è l’aver dato rilievo all’incontestabile questione che l’automazione comporta un grande rischio per moltissimi lavori, anche quelli che credevamo “al sicuro” da questo processo. Ecco quindi che si rende centrale possedere delle competenze che siano “esclusive” dell’uomo, che coinvolgano la sfera della creatività, dell’intelligenza sociale e dell’originalità, ossia quelle più spiccatamente umane. Tutto questo discorso diventa ancora più importante se declinato secondo la green economy. Moltissime delle professioni che il cambiamento di paradigma dell’economia verso la circolarità implica, necessitano di queste doti e difficilmente saranno, in un prossimo futuro, sostituibili: le professioni del futuro, dunque, sono green! Dal report 2019 di GreenItaly emerge proprio questo dato: «il numero dei green jobs, elaborato a partire da una analisi dei microdati dell’indagine Istat sulle forze di lavoro, ha superato la soglia dei 3 milioni, arrivando a 3.100 mila unità, rappresentando il 13,4% del totale dell’occupazione complessiva, valore che nel 2017 era pari a 13,0%. L’occupazione green nel 2018 è cresciuta rispetto al 2017 di oltre 100 mila unità, con un incremento del +3,4% rispetto al +0,5% verificato per le altre figure professionali. Negli ultimi cinque anni la crescita complessiva è stata del +5,3% (altre figure professionali: +4,0%)»[5]. Inoltre, da oggi al 2023, come emerge dal Focus Censis e Confcooperative Smart &Green, l’economia che genera futuro[6], ogni cinque nuovi posti di lavoro creati in Italia uno sarà nelle aziende ecosostenibili. Quindi nei prossimi anni ci sarà bisogno di quasi 500mila nuovi professionisti del verde, che è circa il doppio della cifra generata dall’altro trend innovativo preso in esame nell’indagine, ossia il digitale. I green jobs, poi, sono caratterizzati da una maggiore stabilità dei contratti, con assunzioni a tempo indeterminato nella metà dei casi contro il 24% per le altre figure; e si richiedono, tra le soft skills più importanti da possedere, l’attitudine al risparmio energetico e la sensibilità verso i temi della sostenibilità ambientale. Alcuni esempi di questi lavori del futuro potrebbero essere: l’installatore di reti elettriche a migliore efficienza; il programmatore agricolo della filiera corta; il meccatronico green (meccanici ed elettrauti entro il 2023 per essere abilitati ad esercitare l’attività di autoriparazione dovranno diventare per legge “meccatronici”); il manovale esperto di calcestruzzi green; l’installatore di impianti di condizionamento a basso impatto ambientale; il risk manager ambientale; l’educatore ambientale per l’infanzia (definito dal Ministero dell’Ambiente «uno strumento fondamentale per sensibilizzare i cittadini e le comunità ad una maggiore responsabilità e attenzione alle questioni ambientali e al buon governo del territorio»[7]); e l’elenco potrebbe continuare ancora al lungo, passando ad esempio per tutti quei lavori in ambito comunicativo (socia media management in primo luogo) che si occuperanno di raccontare e rendere d’impatto gli investimenti in ambito green di un’azienda che diventeranno, appunto, sempre più importanti e strategici per ogni business.
Concludendo, è fondamentale sapersi rendere capaci interpreti del cambiamento, per cavalcarlo e non subirlo e soprattutto, ancora una volta, anche in ambito occupazionale, le parole chiave del futuro sono sempre quelle di cui Greenthesis si fa da anni portatrice: economia circolare, progresso, innovazione, ambiente, sostenibilità.
[2] A questo link il testo completo dello studio di Frey e Osborne a cui si riferimento Canova nel suo saggio qui riportato: https://www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf
[3] Per saperne di più su O*NET: http://www.bollettinoadapt.it/il-modello-americano-delloccupational-information-network-e-delloccupational-licensing/
[4] Per l’Introduzione di L. Canova, Pop Economy: #Gamification, #Crowfunding, #Big Data, Hoepli, Milano 2015, p. 4-6, è possibile consultare questo link: https://books.google.it/books?id=7O5tCQAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false